lunedì, febbraio 13, 2012

La relatività della normalità

Scrivo poco e non ho idea di quanti siano i lettori di questo blog. Può darsi che ormai scriva solo per me, perché vedere le cose scritte mi fa bene, mi da un’illusione di lucidità e ridimensiona l’emotività che riverso a barattoli da 5 chili in ogni cosa che faccio.

Sono stata in Inghilterra a fare una mostra, ultimamente. Quando faccio qualcosa in Italia, anche di più importante o più impegnativo, giusto trovo in giro due segnalazioni striminzite. In questo caso, invece, sono usciti un po’ di articoletti, intervista alla curatrice e qualcosa persino - udite udite – nei giornali veri, quelli fatti di carta.

1_Se fai l’artista e ti soffi il naso a STRUMBURSY (o altro luogo possibilmente lontanuccio e con almeno una lettera strana nel nome), se ne parlerà di più di una personale in una galleria italiana (anche se magari è l'equivalente di fare una mostra alla bocciofila di Buccinasco)

Due giorni dopo l’inaugurazione io e l’altra artista abbiamo fatto un workshop a beneficio degli indigeni i quali, con ordine e gentilezza, hanno appreso le nostre tecniche e le hanno testate sul campo producendo lavori propri. I bambini sono stati ordinati e mi hanno ringraziato per essere andata fin lassù a insegnare loro delle cose così belle.

2_In Italia l’arte ce la suoniamo e ce la cantiamo tra di noi. Il panettiere non va alle mostre, il baker invece ci va e pure si sporca le mani. I miei nipotini si sarebbero aperti il cuoio capelluto a vicenda con il taglierino e avrebbero cercato di riparare il danno con la colla vinilica giusto per non venir puniti, ad esempio un giorno senza nintendo.

Appena arrivata in loco, i direttori dello spazio espositivo mi danno le chiavi di una casetta, mi danno i documenti per la vendita, mi chiedono le copie dei biglietti aerei per il rimborso spese. Gli dico che mi servono, devo tornare indietro, non so se prenderò l’autobus o il treno per l’aereoporto, e loro mi dicono: ma fai più o meno, così ci portiamo avanti e ti paghiamo al più presto.

3_Qui mi capita che un gallerista venda le mie opere, ma poi scopro che non è vero, non mi danno i soldi e il pezzo non è più nel loro magazzino.

Adesso veramente mi cade la mascella, ma non voglio dire che fuori di qui tutto è meglio, perché fuori di qui, ma non ovunque, tutto è normale.
Ogni tanto penso di vivere in un mondo che posso guardare solo attraverso una lente che produce aberrazioni, e poi ti abitui, è un attimo.

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domenica, novembre 13, 2011

Conversazioni indigene

Ieri pomeriggio sono uscita di casa (capita di rado, ultimamente, dato che lavoro in una stanza tra la cucina e la camera da letto) per andare a comprare l’agenda 2012. Già. Sono una donna impegnata (incasinata) e ho già appuntamenti (sole) per l’anno prossimo che devo assolutamente appuntare (Alzheimer). Cerco la libreria nuova della piazza in centro e passo da nota via dello shopping con la mia nuova amichetta BB e non riusciamo a camminare perché c’è troppa gente, e non riusciamo a parlare perché questa gente urla.

Quindi registro le seguenti conversazioni:

-E io gli ho detto che avevo fatto le cose giuste, che me l’aveva detto il cuore e l’insegnamento del Cristo.

-Io di sicuro non le compro un paio di Hoogan, mia sorella ha detto che gliele regala lei per Natale e poi cosa se ne fa di due paia, bisogna mettersi d’accordo. Ma avranno il numero 28?

-Io finchè non mettono le lucine non mi sento lo spirito natalizio da sballo.

-Cosa vuoi farci? Devo tagliarle le braccia? No, dimmi tu cosa devo fare. Per adesso mi limito a non lasciarle il cellulare in settimana, però si sente inferiore ai suoi compagni di scuola. Mi sa che domani la porto dalla psicologa e se la vede lei. Te la consiglio: fa miracoli.

-Ma guarda ‘sto stronzo di un stracomunitario, sono tutti uguali. Io che ho fatto l’operaio tutta la vita, adesso guarda qui stai attento con quella bici rimbambito, torna a casa tua!
-Appunto, vorrei entrare in casa mia, ma devo entrare da questo portone e lei ci sta davanti.
-Ma guarda te, adesso anche gli stracomunitari abitano nelle case del centro sopra il negozio dell’ottico.
-Appunto, sono io l’ottico.

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venerdì, agosto 19, 2011

Le scarpe delle donne

Oggi ho ripensato a una conversazione avuta con un amico tempo fa.
A un certo punto – non ricordo di cosa stavamo parlando – lui mi ha detto: ‘Ma che c’entra, tu sei un maschio’. All’improvviso mi sono sentita bene, pervasa da un sentimento cameratesco di appartenenza a una categoria. Poi ho pensato che fosse ok, ma era una categoria sbagliata. Io sono una femmina. All’improvviso ho riletto per scrupolo alcuni post a caso di questo blog fingendomi estranea ai fatti e ho capito che non era proprio chiarissimo il fatto che fossi una femmina, un maschio, uno scatolone o uno scolapasta (a parte un titolo con la parola ‘mestruazioni’ che potrebbe essere inteso in senso poetico se ce ne fosse uno). Quindi di rimbalzo è apparsa nella slide shot della mia mente visiva un’altra conversazione, questa volta con un’amica. Lei mi ha detto: ‘ Sai è un peccato, perché sei veramente carina, è che non ti valorizzi’.
Insomma, ho ripensato oggi a queste conversazioni perché ho scoperto che la maggior parte delle donne che conosco ha almeno 15 paia di scarpe (è una media e non conosco femmine ricchissime: fai tu).
Io, esclusi gli scarponi da montagna e le scarpe d’oro col tacco del matrimonio e le infradito della piscina ho 4 paia di clzature: 1 ballerine, 1 ginnastica estate, 1 ginnastica inverno, 1 stivali. Allora penso che senza volerlo ho sempre seguito la legge di non sottostare alla follia della donna (cit. Elio e le storie tese) e per questo un maschio mi considera uno dei suoi e una donna pensa che non mi valorizzi abbastanza.
In ogni caso vanno bene quelle che ho, dato che compro vestiti uguali da 10 anni, ma forse qualche problema ce l’ho. La mia amica Laura C. un giorno mi ha fatto scoprire il tubino nero e lei era felice che mi piacesse perché pensava mi sarei finalmente divertita a comprarmi degli abiti da donna. In realtà ho trovato un’applicazione pratica anche a quello: matrimoni, funerali e colloqui di lavoro, una specie di divisa delle occasioni pubbliche. Lei non è più felice. Comunque ho un’età in cui non ce la posso fare a stare con le felpe col cappuccio: faccio lo stesso effetto di un koala con la cravatta e sono intrappolata. Scopro ora cose che le femmine sanno dai 15 anni. Non ce la posso fare e basta.

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venerdì, marzo 18, 2011

sono metereopatica ma mi basta un po' di verde e una birretta

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domenica, febbraio 13, 2011

Tempo reale




Immaginavo una manifestazione piatta, tipo usciamo dalla messa, con quattro gatti. E invece no. Tanta gente (per una città piccola come Bergamo) e tantissimi uomini, oltretutto. Donne dai 2 ai 102 anni con figli, mariti, nipoti, colleghi. Qualche cane e alcuni caimani. Pentole sbattute. Cori allegri. Gente che non sopporta più. Sono felice.

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mercoledì, maggio 05, 2010

Una giornata particolare

Ieri è successa una specie di magia strana, per essere a Milano. Ho lavorato e sono anche uscita, ho conosciuto persone bellissime e nascoste. Solo a NY mi succedeva quasi tutti i giorni. A Milano, invece, solo un paio di volte in dieci anni. Ecco perché.

Nel pomeriggio decido che se voglio far qualcosa di serio con un lavoro che ho appena abbozzato, devo andare alla biblioteca specializzata, cioè quella del Museo di Scienze Naturali. Mi sembra un po’ piccola e piena di gente dall’aspetto strano: studenti di 50 anni? No, ricercatori. Trovo in 10 minuti tutto quello che mi serve ma la bibliotecaria si accorge che ho ancora un po’ di pepe al culo.
Venga, mi dice, la porto nei laboratori dei seminterrati. Ma come? Gentilezza, disponibilità e velocità in una persona sola?
Mi accompagna in una specie di paese dei balocchi. Appena entro mi presenta il tassidermista, il quale mi da i contatti dello scenografo e mi spiega come si fanno i calchi al pesce luna. Certo, senza un muletto è un po’ difficile maneggiarlo, ma tant’è. Lui parla mentre restaura un serpente imbalsamato e sì, parla di cose serissime e fantasmagoriche, ma dietro di lui occhieggia uno struzzo a cui sta rifacendo le penne cadute e io sorrido, è tutto surreale. Dipinge le squame del serpente una ad una, a volte senza neppure guardarlo. Non ha ragazzi di bottega, perché ai giovani non interessa scuoiare il leone morto allo zoo per poi metterlo nei diorama del Museo. Ai ragazzi non piace dipingere le pietre di cartapesta. Ai ragazzi non piace lavorare le resine perché puzzano. Mentre cerco di fare in modo che mi adotti, vedo una specie di cavallino sottoscala e pure un poco slogato. Quello, mi dice, si è estinto nell’Ottocento. È l’unico esemplare rimasto in Europa. Devo ridipingergli gli occhi e lucidargli uno zoccolo.
Ecco, adesso so che dietro uno spettacolo come il Museo di Storia Naturale c’è una persona che si impegna da tanti anni e che nonostante il mancato guadagno ha sempre scelto di non lavorare per i cacciatori. Il Museo l’ho visto tante volte, ci ho portato i nipotini, sono andata a farci lunghe sessioni di disegno, ma solo adesso mi sono chiesta chi ha fatto tutti quegli animali, quei paesaggi di finzione e quei fondali splendenti. Solo adesso inizio a divertirmi sul serio.

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lunedì, gennaio 12, 2009

L'amour est un oiseau rebelle - II

Mi sveglio sempre con l’odore di caffè, e adesso non è più merito della mia caffettiera elettrica col timer. Ho i capelli lisci e luminosi, un po’ perché sono felice e un po’ perché si adopera anche con piastra e phon. In casa ci sono ancora un ammasso di scatoloni ma non me ne frega niente, li metteremo in ordine insieme, e sarà divertente. Quando ci vengono le crisi di fame notturne preparo dei panini rotondi col formaggio e li mangiamo a letto. Ho le occhiaie fino a metà pomeriggio perché da un anno chiaccheriamo fino alle due di notte, sghignazzando sotto il piumone. Ho le unghie dipinte di rosso e non perde l’occasione per farmi il solletico. Quando ero agitata per il lavoro mi venivano le crisi di nervi, ma adesso ci ricamiamo sopra delle storie fantascientifiche, dove chi mi fa arrabbiare perirà sotto un meteorite o facendo lo schiavo in una miniera di uranio e casoncelli. Insomma, vivevamo già insieme e ci siamo sempre detti che non sarebbe cambiato niente. Invece ci siamo sposati e giuro che è meglio ancora.

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giovedì, luglio 10, 2008

italiena

Me lo diceva la nonna che uno è quello che mangia da piccolo. E ci resta. Anche se la vita poi ti offre cose bellissime ed elegantissime, il nucleo originario non stenta a svelarsi e riproporsi neppure nelle situazioni più chic. Però un pochino ci avevo creduto.

Invitata alla mostra in Francia, in località elegante di passeggiate sulla promenade, tra i profumi della provenza e le residenze pensionistiche dei pittoroni del secolo scorso, mi immaginavo chissà che. Non fraintendiamo: la mostra è andata benissimo e la galleria era bellissima spaziosa e luminosa, sono stati tutti gentili e ho mangiato e bevuto come una principessa. Io e gli altri artisti siamo stati alloggiati in un’istituzione d’arte famosissima, dove vanno a studiare e insegnare persone da tutto il mondo.

In questo clima multiculturale, dopo il giardino da mille e una notte, dopo il padiglione delle esposizioni chilometrico, dopo l’ingresso in sassi della spiaggia, c’è una scaletta che porta in un corridoietto, pieno di porticine che entrano nelle stanzine. Ci hanno dato le chiavi di una di queste particole frattali del sontuoso edificio, ed erano ampie come il mio ripostiglio a muro, sporche da far impazzire anche il più unto dei lercioni, e appena mi sono seduta sul lettino per disfare la valigia, una gamba si è rotta e sono finita a terra. Il giorno dopo hanno fatto finta di aggiustarmela con la colla pritt, e quindi si è rotto tutto di nuovo. Ho dormito col  materasso per terra e portato il letto nel corridoio, ho comprato un detersivo ma non c’è stato niente da fare, il grasso di mesi non si può levare così. Sognavo di avere con me il saldatorino e dormire di nuovo nella polvere e nella segatura del mio studio, quando ho incontrato una pulce e dei capelli, che ho raccolto dal materasso e volevo buttarli in bagno, ovviamente in fondo al corridoio, ovviamente misto e senza alcun tipo di pulizia dai tempi della presa della Bastiglia.

Un po’ disperata ho capito che non sarei mai riuscita a far niente lì, quindi la sera, con l’ultima sigaretta, prima di dormire, andavo a far pipì sotto la murraia paniculata, accanto all’allamanda cathartica, di fronte all’aristolochia gigantea.

Ma il mio preferito è stato il nocciolo. Come ai vecchi tempi.


 

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martedì, aprile 15, 2008

la servitù non è più quella di una volta

Dopo tre anni sono stata ripescata dal vecchio capo (in realtà la bellissima DonnaAlo) per dar man forte all’allestimento di una mostra in ridente cittadella collinare in occasione dell’inaugurazione di una cantina di pregiati vini. Un po’ fuori allenamento, ho ripreso l’avvitatore e la livella tra le mie braccia, i guantini con la palma di gomma, il taglierino in tasca, i chiodi tra i denti e, nonostante il dito offeso dopo una lite con una latta di cannellini, ho constatato che con un cacciavite in mano si cuccano gli elettricisti e che con il trapano acceso in modalità percussione li si fa scappare. Hanno alimentato il corpo operaio con filetti succosi alti 5 cm e vino buono. La sera dell’inaugurazione sono riuscita a scampare la follia di chi mi voleva confezionata come un boero in tulle rosso e scarpe a punta, ho recuperato una camicia bianca e un paio di ballerine in modo da sembrare come sempre una cameriera lesbica e mi sono tuffata nel girotondo ciao ciao come stai è tanto che non ti vedo, dall’ultima apertura della triennale, ci sono le tue opere qui cipiripippi. Quando ho capito che c’era da mangiare per 200 persone mi sono guardata attorno: gli invitati erano almeno il doppio e mi è venuto un po’ da piangere. Mentre vedevo a random ragazze bellissime, donne baraccone, ottuagenarie plastificate, pensavo di non potermi iscrivere in nessuna di queste categorie e ho tentato di togliermi la fame con le camel, ma poi il vino è stato troppo, ed è arrivato l’angelo salvatore MastroCico. Lui sa sempre essere al posto giusto nel momento giusto.
Mi ha portato a sedere sul flycase nel magazzino adiacente la cucina del catering. Lì, con la faccia affranta e i muscoli in preda all’acido lattico, ho ricevuto porzioni più che dignitose di pasta calda e gustosa, dolci raffinati e calorici e grappe stappate prima dell’etichettatura per mano di fattori gentili, sani, mangioni, ridanciani, ubriaconi e fumatori. Con loro, appunto, ho bevuto, mangiato e fumato, ma soprattutto discusso delle sculture a cippa di minchia che fanno sui filari e sul dubbio che il titolo della mostra fosse tratto da Rimbaud o Verlaine. 5 a 2 per Rimbaud, e giù di grappe profumate.
Là fuori c’era qualcuno che mangiava una lumachina parlando della qualità della servitù. Io penso che sia veramente ottima, meglio di una volta.

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mercoledì, gennaio 30, 2008

torton wedding



E quindi è andata. Mentre noi non abbiamo ancora capito come abbiamo fatto a fare in tempo ad andarci, a trovare un vestito, a trovare il regalo, loro si sono sposati. Alice fuma e beve fuori dal Mono appoggiata a una macchina. Camel light e rum con ginger ale, normale, direte voi, però pare ci goda a bere e fumare con un cerchietto d’oro al dito. Che erano bellissimi, bianchi e rossi e neri, lo vedete anche voi. Vivienne Westwood e vellutino nero, calze e tulipani rossi.
Al comune di Tortona c’erano tutti, gli zii della Sicilia, i coinquilini di Milano, i compagni delle superiori e i compari delle notti, i batteristi e i compositori, le sorelle le cugine, le mamme luccicanti e le nonne commosse, i padri finto duri, le comari emozionate, gli storici parmensi, gli amici da Berlino, Londra e Parigi.
Alla festa c’era di tutto, cibo vino e allegria, vestiti dai colori puri (Magenta 100, ciano 100, giallo 100, nero 100, verde televisione), occhiali bicolori, gilet di pelliccia, ori siciliani, gonne a paralume, t-shirt, scarpe turchesi, bolerini vermiglio, minigonne e tacchi, completi riservati piemontesi, capigliature dal brizzolato al new punk, lacrime e grida agli sposi.
La Rekkia, Borisone, CarloCap, FantaLau, Memoletta, Zibi, Landre, Cruccu, Milton, Doktor, Manetta & Friend.
Il nostro tavolo sembrava una cena di quelle belle in Gluck col tavolo da 12 e gli amici cari, che tante ne abbiamo fatte insieme, però stavolta Alice stava con Sandro ad un altro tavolo e a volte smettevano di limonare in un angolo e venivano a trovarci.
Evidentemente scossi dal delirio emotivo e alcolico, adesso stanno riprendendo una specie di vita normale, cercando di far entrare nel monolocale dell’amore tutti i regali compreso un piccolo tender per remare romantici e buttare le cicche nel mare.

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domenica, gennaio 20, 2008

cose (belle) dell'altro mondo

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giovedì, ottobre 11, 2007

L'amour est un oiseau rebelle

Ecco. Il qualcuno che invocavo nel post precedente si è materializzato, per la precisione sul balconcino dell'amica L.C.
Quando due persone si incontrano e si incantano e si incastrano si dovrebbe organizzare qualcosa. Del tipo: per la prima settimana lasciarli a letto sotto un piumone bianco senza farli uscire. La Repubblica Italiana dovrebbe predisporre un catering apposito di caffè, sigarette e cibo leggero da dispensare a richiesta.
La Regione potrebbe organizzare un ufficio di stagisti che sostituiscano le loro presenze nei rispettivi luoghi di lavoro. Un maggiordomo in livrea dovrebbe dirigere il tutto e capire quando è il caso e quando no, magari rispondere ai loro telefoni e dire: "La signora è impegnata in un viaggio nel Paese dei Grattini, le faremo sapere".
Penso che sì, bisognerebbe fare qualcosa, anche solo per quella settimana di grazia.
In questo modo le persone in questione potrebbero riprendere velocemente la padronanza dei loro tratti somatici e debellare il principio di una paralisi da sorriso prolungato.
Da una diecina giorni a questa parte ho delle occhiaie che mi sembrano persino affascinanti e le gote rosse come Heidi. Sono consapevole di essere disgustosa agli occhi dei più, abituati alla mia letargia e alla sindrome della melancolia da sottobosco autunnale.
Ma sono quasi dieci anni che non mi succedeva una cosa del genere, e in virtù di questo fatto me ne frego altamente. Ritorno appena posso, a tarda sera e dopo le mie solite giornatacce, sotto il piumone bianco ripetendomi: domani usciamo. Sì, domani. Frrr...

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giovedì, agosto 23, 2007

palermo 3 - riflessioni

Se vuoi conoscere il mondo devi essere totale. Devi fare cose estreme. Viaggi a perdifiato e collezioni timbri sui passaporti, impazzisci di aerei e treni e traghetti e navi e desideri il teletrasporto. Hai un campo base a Milano, Londra, Parigi, New York, Los Angeles, Shangai, Amsterdam, Pechino… Posti con aeroporti trafficatissimi e stazioni piene zeppe di treni. Oppure stai fermo nei posti mistici, ti guardi intorno e lasci che il mondo venga da te e che siano gli altri a passarti davanti. Palermo è uno di questi posti mistici e per sua natura ti attanaglia nelle spire dell’immobilismo. Ci sono cascata ancora. Perché, con i pochi giorni a disposizione, devo farmi le scarpinate e le corse a cercare di arrivare alle Eolie un giorno prima per poi partire il giorno dopo se posso bivaccare nell’orto botanico? Perché cercare gente nuova per forza se sono con La Banda dei Beoni e dei Mangioni di Milano a casa dei Saccardi a Palermo e stazioniamo parlando di mafia e di immondizia e di barocco su un divano rosso e Gianluchino ci guida nelle notti e nelle piazze? Perché cercare ancora sapori diversi in un posto mai visto se mi posso spaccare di ricci al baracchino della Kalsa? Perché cercare le nature lontane se posso stare su uno scoglio da sola per ore a guardare il nulla lontano o i polpi nei fondali di Capo Gallo? Perché la stigghiola la compri e fa schifo e poi la mangi e ti vien voglia di limonare tutto il mondo anche i cani? Non lo so.
Sta di fatto che appena arrivo a Palermo mi sento sempre a casa. Strano, molto strano, dato che sono cresciuta in Ridente-ameno-paesino-delle-prealpi-orobie.
Palermo sta al mondo come i ricci al mare: con una dose di calibrata astrazione e fantasia ne distilli il sapore essenziale.
Palermo è astratta.

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martedì, luglio 31, 2007

facile abbindolarmi - basta poco

Una volta qui dentro ho scritto di avere tante amicizie maschili. È vero. Però oggi ho fatto il trasloco: il camion l’ho caricato con Paurosella col mal di schiena e le vertigini e le crisi di panico. Nel pomeriggio mi darà una mano in auto l'amica Fanta, che ha mille lavori da fare e appuntamenti a destra e manca: ma un’ora l’hanno trovata.
I maschi tutti: abitano fuori provincia, sono già in vacanza, hanno l’ernia, sono al lavoro, mi hanno chiesto “sì, ho capito, ma di sera cosa fai?” e fanno finta di non vedere la mia faccia pietosa quando dico che devo traslocare. Perché io sì, ne ho fatte di facce pietose, a destra e a manca, stamattina anche con gli sconosciuti offrendo 10 euro per sollevare un tavolo. E anche perché a me, di quelle cose femministe tipo “faccio tutto io”, non me ne frega proprio niente. Mi piace farmi aiutare, mi piace farmi offrire le cene e si, adesso lo dico, mi piace anche che qualcuno mi apra la portiera dell’auto. Mi piace da morire che qualcuno pensi di doversi prendere cura di me anche se la maggior parte delle volte poi succede il contrario. Ma è una tensione a, un allungamento verso. E invece no. E poi mi sgridano, perché sono vestita come un marine e coi bei capelli che ho mi faccio sempre la coda e porto scarpe da trekking e oddio, sì, me l’hanno detto: tu non ti sai valorizzare. Ma come ce la porto la scrivania di sotto, coi tacchi e la minigonna? E che è? Un film di Russ Meyer? Non voglio diventare una di quelle pazze che continuano a pensare che gli uomini di qui e le donne di là e blablablabla. Perfavore...
Infatti, appena formulo questo pensiero, magia, è spuntato l’amico Frrr, l’amico più nuovo che ho.
E ha sollevato il tecnigrafo e si era portato pure i guantini con la gomma, due paia, uno anche per me. Qui ho pensato davvero che uno su mille allora esiste, e quel paio di guantini in più mi sono sembrati subito un mantello steso su una pozzanghera.
E vi ha salvati tutti, bastardi!

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lunedì, luglio 23, 2007

life in boxes

7 anni fa ho preso in affitto la prima casa a Milano.
Di tutte le case in cui ho vissuto (anche solo per breve tempo) conservo la pianta e l’indirizzo postale preciso, da quella in cui sono nata a quella in cui vivo ora.
Tra poco potrò fare un libro di 200 pagine, probabilmente.
Solo dalla prima a Milano in poi:
Milano, via Cima
New York, Madison Avenue
Milano, via Rho
Salamanca, Avenida de Portugal
Milano, via Gluck
Milano, via Tellini
Milano, via Bronzino
1 anno fa ho iniziato questo blog con la settima casa nuova, e ora sto per traslocare nell’ottava. Tra l’abbandono della settima e l’ingresso nell’ottava passeranno però due mesi, e non chiedetemi perché, la vita a volte si inventa delle cose mostruose che neanche uno sceneggiatore pazzo potrebbe partorire.
Sono veramente stanca. Stanca di mettere la mia vita dentro scatole di cartone. Stanca che queste cose succedano a Milano nel periodo infuocato e maledetto tra fine luglio e inizio agosto. Cerco di fare le cose nel modo più ordinato possibile, mettendo una bella scritta su ogni scatola: scarpe inverno, libri arte piccolo formato, narrativa italiana, narrativa straniera, saggi arte, saggi fumetti, cucina e lingua straniera, attrezzi vari, manualistica, attrezzi cucina, rassegna stampa, progetti in corso, riviste arte, documenti, cartoleria, collanti, medium, matite colorate, elettricità e cavi, back up 2006-2007, barattoli, piumone + giacca nera, coltelli.
Avere tutto questo e molto altro in una stanza mi fa sempre impressione.
Smontare e trasportare il tecnigrafo è sempre un’impresa che mi fa capire che sì, sono ancora giovane e forte.
Alterno momenti di ordine e geometria chiudendo 10 scatole in 30 minuti a momenti di emotività sconnessa.
Ieri sera, infatti, sono arrivata al Pertugiodellalibreria, quello scomodo, dove metti solo cose che non guardi tutti i giorni .
Ho trovato la cartellina viola di plastica con l’elastico intitolata “LA CHIUSA”.
Lì c’è una bella fetta della vita pre-E-mail o not-only-E-mail. Ossia:
Lettere agli amici delle vacanze
Lettere di Paurosella dal kibbutz e da Londra o dal banco a fianco
Lettere di Elenia da Berlino
Lettere in italiano dolce e sconnesso di Cristina
Fumetti 4 mani (o due ani) con Mastropitbull
Lettere con l’indirizzo di NY o Salamanca
La cartolina Doktor-Paurosella-Borisoncione dalla Turchia coi sassi a forma di ciota mistica
Lettere d’amore ricevute
Lettere d’amore mai spedite
Lettere d’amore illustrate
Lettere d’amore di uno sconosciuto
Lettere del professore Guido Tona
E qui proprio ho iniziato a piangere.
Lo faccio sempre. Ad ogni trasloco.

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mercoledì, luglio 18, 2007

il bello di essere grandi

Avere degli amici che vedi una volta all’anno ma con cui hai già passato così tanto tempo che quando ci si vede si ricomincia come se fossero passati 5 minuti
Non essere ancora vecchi
Andare a mangiare la pizza a Dalmine
Non essere più piccoli
Mangiare la pizza a Dalmine con GGluigi come se non fossero passati 7 anni dalla prima volta, due figli e 7 viaggi, 7 chili e 7 rughe, 7 malattie e 7 traslochi
Telefonare alla Marisa e ridere dello spazio-tempo
Poter ridere sguaiatamente
Poter ridere nonostante l’età
Raccontare la vita alle sorelle minori
Bere Fernet Menta come se fosse acqua
Fregarsene
Capire che quello che si sa è anche un regalo delle persone a cui si vuole bene
Avere delle patologie insondabili e incurabili ma buffissime
Andare in piscina non solo per piacere ma anche perchè inizia a cadere il culo
Ascoltare Paranoid esaltandosi
Ascoltare The man who sold the world e piangere sapendo che la Marisa sta facendo lo stesso
Lavorare con gli orari che si vuole anche se alla fine si rasentano le 18 ore
Poter raccontare storie lunghissime che iniziano 15 anni prima
Sapere che tra 10 anni smetterò di fumare
Mangiare la pizza a Dalmine e bere il Fenet Menta col ghiaccio mentre GGluigi dice “Io c’ero” al concerto di A man from Utopia
Pensare che per questo godrei nell'avere 13 anni in più
Guardare gli amici che fanno i figli
Parlare con qualcuno di Bulgakov senza che ti sputi in un occhio
Bere 2 caffè di fila
Scrivere su un blog e ricordare che i diari li hai bruciati al fiume in un momento di benessere
Essere cinici con eleganza senza sembrare arrabbiati
Prendersi in giro e ridimensionare
Pensare di essere grandi ma comunque piccoli
Godere senza sensi di colpa cattovalligiani
Mangiarsi ancora le unghie
Mettersi i tacchi per poi finire al Parco Lambro e sentirsi ridicoli
Dire che la scamorza affumicata è una cosa fine

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mercoledì, maggio 09, 2007

ilbarbettadimerda

Abbiamo finalmente inaugurato la mostra-minestrone che mi ha tenuto in dubbio fino all’ultimo: ho fatto una cazzata grossa o un bel lavoro?
La risposta non è ancora arrivata: in queste cose, sollevato il dubbio, raramente discende a terra. Mentre rifletto ripenso alla serata.
Inaugurazione con tutti i crismi compreso taglio del nastro, visita totale delle 52 stanze accompagnata dalla gallerista del mio cuore, scambi di numeri di telefono e chiaccherate coi colleghi, discreto prosecchino tra un piano e l’altro. Poi la cena.
Io stavo già per scappare, per timidezza o semplicemente voglia di un dopo-bolgia tranquillo, magari col fritto dell’egiziano, in bella compagnia. Adduco scuse ma si vede e vengo tacciata di orsite, almeno alle tue mostre!
E va ben. La bella compagnia si sposta verso il ristorante che poi scopro essere un concept-store (brutto nome che sta bene giusto alle puttanate). All’ingresso veniamo “accolti” dal buttafuori (d’ora in poi Ilbarbetttadimerda) che in quanto butta-fuori non è molto in grado di accogliere. Paghiamo PRIMA di entrare in sala (veramente signorile), ci sediamo su orribili sedie di design (probabilmente fatte dagli studenti dell’asilo di Mariano Comense) e ci vengono serviti nell’ordine:
quadratino di lasagna vegetariana 6x6 cm
3 fette trasparenti di carne acquosa con tortino di carciofi surgelati diametro 4 cm
fetta di torta gonfiata a margarina 5x4 cm
caffè al banco mentre sparecchiano.
Tutto freddo. Mentre ci diciamo che con quello che abbiamo pagato ci porteranno da bere, scopriamo che oltre alle 2 bottiglie permesse al nostro tavolo da 8 persone, bisogna pagare le altre.
Ovviamente, tra una portata e l’altra usciamo a fumare. Ilbarbetttadimerda ci ritira un gettone (quelli che l’avevano dimenticato al tavolo devono ripercorrere i 500 metri dall’uscita alla sala) e ci fa un timbro sulla mano. Siamo in discoteca? Qualcuno gli fa notare che usciamo solo dalla porta per poi rientrare da lì, che a Como alle 11 di sera sulla tangenziale non c’è la fila per entrare di straforo nel concept-store di minchia, e poi: anche se qualcuno entrasse, cosa potrebbe fare? Cibo non ce n’è, vino neppure.
Ilbarbetttadimerda risponde a monosillabi che senza gettone non può fare uscire, e se esci, senza timbro non rientri. Noi sbuffiamo, stiamo per innervosirci e soprattutto abbiamo fame. Sediamo il tutto con un bis di sizzini e parliamo incazzati sotto l’occhio vigile di Ilbarbetttadimerda che non ci molla. Decidiamo di rientrare. Ilbarbetttadimerda ci chiede se abbiamo il timbro. Noi la buttiamo sul ridere, facciamo delle citazioni tipo “Quanti siete? Cosa portate? Da dove venite?”, passiamo la soglia e ridiamo. Ilbarbetttadimerda dice di non scherzare che altrimenti chiama la sicurezza. Dentro la festa sta per iniziare, si odono le prime note di musica di merda e Ilbarbetttadimerda ondeggia e riprende il sorriso.
Chissà le sorti dell’arte che si decidono dentro, chissà che discorsi impegnati e che occasioni sprecate. Mostriamo il timbro, entriamo. La musica fa veramente schifo, e quindi in sintonia con il luogo. I colleghi e datori di lavoro ballano e si scosciano. Mostriamo il timbro e usciamo. Questo per un paio di volte, finchè esausti decidiamo di andare a prendere le borse e scappare. Riusciamo a superare ancora una volta Ilbarbetttadimerda e, dato che alla richiesta del timbro, esausti, non lo guardiamo neanche più in faccia, Ilbarbetttadimerda ci apostrofa con un “E almeno un sorriso, mi raccomando!”. Diventiamo viola, ci fumano le orecchie, facciamo progetti di furto e scasso alla casa di Ilbarbetttadimerda, torniamo all’uscita e questa volta per l’ultima volta, che poi si iniziano a lanciare sassi. Ilbarbetttadimerda ci dice “Uè, ciao, eh!”. Poi sottovoce ad un suo amico: “Certo che gli artisti sono proprio maleducati”. Noi ci giriamo. Siamo in sei. Abbiamo gli occhi di fuori dalla fame e dal nervoso. E allora ci scappa: “MA VAFFANCULO!” e giù a correre in macchina e scappare via dal concept-store, da Ilbarbetttadimerda e il suo auricolare, mentre dentro di noi sognamo un macello, con tante piastrelline bianche, interno giorno con neon, Ilbarbetttadimerda appeso a un gancio che urla come un maiale, noi che tagliamo dalla sua panza tante belle bistecchine, la macchina delle salsicce che cigola, piano sequenza con la faccia di Ilbarbetttadimerda morente e ognuno di noi, sazio finalmente.

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lunedì, marzo 19, 2007

sproloqui e pastis

Questa mattina mi sono svegliata presto per prendere un treno e tornare a Milano.
C’era così tanta nebbia che mi sembrava di essere finita dentro un bicchiere di Pastis.
Oggi pioggia molesta, ma va bene, che poco freddo ci ha portato questo inverno, grazie all’effetto serra stimolato dall’abuso di lacca per capelli negli anni ’80.
Avevo anche la malinconia da Pastis, di quei pomeriggi caldi caldi e di un baretto con i tavoli all’aperto all’ombra di un alberello in un giardino improvvisato.
Questa notte s’è fatto un po’ tardi, ma ho imparato a giocare a poker. E allora, dato che troppi film mi faccio in testa la sera prima di addormentarmi, ho pensato che sarebbe bello rifare il viaggio de “La musica del caso”, ma dovrei fidanzarmi con un giocatore di poker professionista e fumare tante sigarette e dipingermi le unghie di rosso e costruire una città in miniatura o un muro in un prato. Mi sono svegliata con l’ormai abituale sensazione di vivere in un momento sbagliato e in un luogo che non mi è congeniale. Addirittura mi sembrava di essere più alta e che il mio corpo occupasse uno spazio sproporzionato rispetto a ieri. Dopo un paio di fermate del treno ho pensato di avere 30 anni davvero, e che il compleanno è passato ormai da un mese e non me ne sono resa conto. Mi accorgo sempre troppo tardi di quello che accade e il più delle volte riesco a far finta di niente. Mi fa impressione vedere le cose da fuori, e le poche volte che mi capita di essere lucida, lo sono davvero, in modo chirurgico. Arrivo in stazione, lavoro in studio un paio d’ore. Poi penso che me ne frego dei 30 anni, che non importa se piove.
Vado in un baretto a Brera, fingo un anniversario, fumo sigarette, prometto di non mangiarmi più le unghie e bevo un Pastis.

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domenica, febbraio 18, 2007

una giornata qualsiasi

Marco è agitato, sta finendo i quadri. Non sa più come e se fermarsi. Il catalogo langue. So che saranno corse a perdifiato. Andrea Mastrovito è sul lato vetrato dello studio. Sta ritagliando quintali di carta, l’opera finale sarà di 10 metri alta 2.5, tutto montato in enormi scatole di plexiglass che verranno retroilluminate.
Marco cerca di dividere i suo quadri per la mostra in ONU, WALL STREET, RW&A, ma anche nelle sottocategorie FINITI, DA FINIRE, FOTOGRAFATI, IN CATALOGO. Alla fine li ha spostati tutti, e lo studio è cambiato completamente così come cambia la luce ad una latitudine diversa. Io mi affretto a misurare gli ultimi, alcuni li ha fatti fare con le misure in pollici, e quindi in centimetri non fanno cifra tonda. Poi torno al tavolo a finire di disegnare una carta da lucido che ho in sospeso da tempo. C’è un tale casino qui, che quasi non riesco più a lavorare in luoghi puliti, ordinati e silenziosi. La gatta Tinta passeggia sul mio disegno. La cosa bella delle zampe dei gatti è che sono sempre pulite. Al massimo hanno un po’ di polvere sui cuscinetti che si può levare con una passata di gomma. Andrea invece è allergico al pelo, continua a starnutire e stanotte dormirà da me. Io non riuscirò, so che russerà un sacco, ma spero mi regali un romantico paio di tappi per le orecchie.
Adesso sta per uscire, ha finito la colla, Marco gli urla di comprargli anche il bianco assoluto, già che c’è.
“Va bene. Quanto costa?”
“Non lo so. Ma ti do 50 euro e me ne devi riportare almeno 40.”
Squilla il telefono. Uff. sbuffiamo sempre quando suona il telefono.
È il signor ceramista, vuole che Marco vada a controllare la prima cottura della scultura. Nel frattempo suona anche il telefono di Andrea, lo cercano per un’intervista, e il mio, vogliono farmi fare una mostra a San Pellegrino Terme. Poi riattacca una suoneria con motivetto da stadio, è di Andrea, chiacchiera con la fidanzata un po’ sottovoce.
Iniziano a bussare alla porta, e a tutti viene una specie di crisi isterica: “Ma come si fa a lavorare così?”
Andrea esce alla ricerca della colla perfetta e del bianco assoluto. Io metto un caffè e mi fumo una sigaretta, fingendo una batteria scarica e si ritorna a lavorare tranquilli, mentre il fotografo Paolo, quello che bussava, entra e inizia a scaricare tutto il suo armamentario e sono baci e abbracci e chiacchiere piacevoli.
“Tu sei sempre quello che finisce i quadri mentre li fotografo!”
“Come ti sembrano?”
Nel frattempo ha già scattato una decina di volte, la sua velocità è impressionante.
Gli Smog tubano nelle casse.
PLIN
È arrivata una e-mail.

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giovedì, gennaio 25, 2007

gli ibernati e una sera da femmina

Dopo settimane di lavoro pressante e di orari incredibili al computer e al tecnigrafo (... la notte ha ormai girato quell'impercettibile chiavetta con cui si passa dalle due alle sei del mattino... Jay McInerney, Le mille luci di New York) e di stress da soldi incredibile ( ti pago domani, ma forse settimana prossima ma forse ancora no, mft, Gli ultimi 40 giorni)sono riuscita a mettermi in tasca una manciata d' euro e dimenticarmi tutto.
Prima tappa libreria, e ho inizato subito a sgodazzare, che ho trovato Fitzcarraldo nei reminders, ed ero felice proprio. Fitzcarraldo mi ricorda sempre l'amica Flo, baluardo degli sbattimenti incommensurabili da quando ha trascinato una lavatrice giù dalle scale.
Seconda tappa: invito a cena dell'amica L.C. Ho fatto la smargiassa e stavolta ho offerto io. Con lei si inizia sempre con discorsi superculturali, essendo lei anche la curatrice delle mie prolisseidi disegnative. Verso metà birra siamo già al pettegolezzo spinto e si arriva all'amaro parlando di maschi in modo molto romantico ma anche no.
Dopo il secondo Fernet invece, iniziamo a tirare a riva tutta la serata, coagulando le ore di chiacchericcio in inestimabili teorie, sicure di essere portatrici sane di verità ineffabili. Ieri sera è stata la volta della teoria dei maschi ibernati, mossa dal racconto di una telefonata di un vecchio amore, che non si spiegava perchè lavorassi tutti i giorni e pensava che non avessi ancora dato la tesi, dato che quando ci siamo visti 3 anni fa, la stavo per consegnare.
Sosteniamo che le femmine, alla fine, sono capaci di mandar giù, riescono a convertire in energia pulita anche le magagne più feroci, riescono ad astrarre le personalità dai contesti e notano le evoluzioni e i cambiamenti degli esseri umani a loro vicini.
I maschi, invece, si fermano al momento in cui hanno preso coscienza. Nel senso: ti hanno conosciuto in un modo? Ma come, sono passati solo dieci anni e hai già cambiato idea? Quando ti ho conosciuta non eri così. E' ovvio. Quando mi hai conosciuta ero anche alta 10 cm in meno. Ma come? Adesso lavori al computer? Certo, al bar dove ti portavo le birre non ne avevo bisogno. Non posso passare in quella via, lo sai che ci abita quella ragazza che mi ha lasciato 6 anni fa. Da qui "ibernati".
Si rideva tantissimo e alla fine ho pensato che la leggerezza fa bene, che ogni tanto bisogna fare il back up del passato e conservare, ma non davanti al naso tutti i giorni. Poi l'11 è passato e continueremo un'altra volta.

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