martedì, settembre 23, 2008

settembre andiamo, è tempo di migrare

Settembre mi coglie sempre di sorpresa. Dopo un’estata passata a ciondolare tra dentro (casa) e fuori (Milano), ad attraversare la strada senza guardare (non c’era nessuno) ecco che il casino ricomincia. È come se tutti, dopo essersi rilassati, ripartissero con più isteria di prima. Era così bello agosto. Ho riprodotto svariati piatti mangiati in giro, ho imparato a fare il pane. Ho pensato alla mostra e trovato i telai, ho disegnato tantissimo. Ci vuole un attimo per capire che è tornato settembre. Lo shock si vive stando a Milano, non andando ad Honlolulu. Dal primo lunedì utile ritorna tutto come prima, e in un mese (era così bello!) me lo ero dimenticato.
Non si trovano più parcheggi, mi telefonano 100 persone al giorno, tutte le gallerie devono fare i cataloghi, tutti gli amici vogliono uscire, mi arrivano le e-mail persino dal GS. Poi c’è il film festival, MiTo, music across, la settimana della moda, l’apertura delle gallerie congiunta e fino a mezzanotte. Vorrei vedere tutto, uscire con tutti, lavorare ordinata. Ma non si può. Allora seleziono, col rischio di passare per stronza. È come avere un bigino del mondo e alla fine cedo, e John Zorn e Marc Ribot e Lou Reed me li voglio vedere.
Milano, per finta, è comoda.
A Milano, se vuoi stare una sera a fare le coccole a Monsieur Zimbarò o cucinare per gli amici belli, sei tacciata di sedentarietà e vecchiume. E poi, un sacco di volte, io lavoro, di sera. Allora diventi la pazza in carriera, neanche quello va bene.
Milano ti offre tantissime cose, ma è un po’ come le ragazze che lo fanno per finta.
Milano è una profumiera.
Milano è una brutta bestia piena di lucine.
Milano è tornata dalle ferie con la rogna, quest’anno. I proprietari del bar dove andavo tre anni fa hanno ammazzato a sprangate un ragazzo giovanissimo. Un amico di amici si è svegliato un giorno e ha accoltellato delle persone a caso. Il parrucchiere nella via di fianco prende a calci nel sedere una donna vestita di stracci. Una bambina da sola chiede soldi al semaforo. Non c’è più la coda al supermercato. I vecchietti rovistano tra la spazzatura del mercato. Per strada non ci sono più i milanesi nervosi che non sanno guidare, ma mine vaganti ripiene di cocaina. Le mamme sbattono i figli su e giù dalle auto in terza fila, si lamentano del costo dei libri e poi regalano loro dei cellulari carichi per un anno. Signore con fili di perle fanno la fila al portone della mensa dei poveri. Uno dei miei datori di lavoro (notoriamente ricchissimo) ha fatto finta di non vedermi mentre si provava una camicia da Oviesse. Al bar della stazione centrale i poliziotti bevono il caffè, a gruppi di tre o quattro, sentono “al ladro!” e molestano un ragazzo che stava facendo i biglietti. Il ladro vero scappa e si fanno rifare i caffè, gratis, perché si erano freddati. Ho chiesto in un locale di bassa lega se avevano bisogno di personale per la pausa pranzo e mi hanno detto di mandare il curriculum via mail.
Sto pensando (ciclicamente ogni due anni) ad emigrare.
Ma stavolta non da Milano, proprio proprio dall’Italia